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Milano dalla nebbia al pm10

di Riccardo Chiaberge

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19 marzo 2010

Nemmeno la nebbia è più quella di un tempo. Al Giambellino di Giovanni Testori, primi anni Sessanta, veniva fuori «dalle finestre lunghe, strette e uguali delle cantine, dai canali, dai fossi, dai mucchi di immondizie e di concime» come un mare «lento, umido e ostinato» che fasciava le case con un «immenso pulviscolo grigio-nero». Nella Vita agra, Luciano Bianciardi la descriveva come un «prodotto meteorologico collettivo, una flatulenza di uomini, di camini e di motori che [...] si è condensata in questa specie di rigovernatura di città». Comunque, un fenomeno naturale dotato di una sua estetica perversa, che contribuiva in certo qual modo allo spleen dei luoghi. Tanto che i milanesi, come notò Alberto Savinio, quando parlavano della nebbia avevano l'aria di dolersene ma in fondo ne erano contenti come di una cosa loro. Oggi, di naturale, la nebbia di Milano ha ben poco, e sparite rogge, camini e letamai, restano le esalazioni degli Euro 4, benzene allo stato puro e finissimo particolato: sostanze invisibili e incolori che non avvolgono, non «mobiliano la città», non creano atmosfere, ma si limitano ad arrossare gli occhi e irritare i bronchi.

La Milano immortalata nelle foto di Giancolombo (al secolo Gian Battista Colombo) che vedete in queste pagine richiama quella nebbiosa e un po' tetra di Bianciardi e Testori, la stessa che ricordo da bambino — quando venivo da Torino a trovare mia zia e con lei andavamo allo zoo dei giardini Palestro, e corso Venezia era una voragine dove stavano costruendo la metropolitana — ben più che la Milano di fine anni Settanta, dove ho tentato di mettere radici con la riluttanza tipica del subalpino.

Allora, nella cerchia dei navigli, i taxi erano gialli e le Fiat Ritmo per lo più blu carta da zucchero, gli automobilisti non erano divisi come ora tra gli opposti estremismi — o con la Smart o col fuoristrada — e la Stazione Centrale di Piacentini era una cattedrale marmorea e fuligginosa, non uno scintillante centro commerciale dove se il treno tarda sei costretto a comprarti un paio di mutande. Nelle bettole di Corso Garibaldi, non ancora trasformate in fast food, si mangiava la cassoeula e il riso al salto. A volte ti capitava di vedere galleggiare nella minestra una zampina di scarafaggio, e bisognava stare attenti ai vicini di tavola, specialmente se facevi certi mestieri legati ai giornali. Ricordo che una sera un amico fotografo si alzò di colpo e mi trascinò fuori dal locale: aveva visto entrare un paio di ceffi di Autonomia Operaia,
e temeva che lo sprangassero a morte (aveva scattato lui le celebri foto degli scontri di via De Amicis con il killer del passamontagna che spara ad altezza d'uomo).

A Parco Sempione si spacciava l'eroina, il mattino sui marciapiedi dovevi fare lo slalom tra le siringhe. I ragazzi dello zoo di Milano erano gli ultimi avanzi dei movimenti degli anni Settanta, bruciati dalle delusioni di una rivoluzione impossibile, una tribù di zombie relegata ai margini della città rampante, ma tutto sommato discreti

e più aggressivi verso se stessi che verso il prossimo, a parte qualche scippo e qualche bicicletta rubata. Adesso intorno all'Arco del Canonica impazza la movida, e la droga ha cambiato forma e nome: impalpabile e pervasiva come le polveri sottili, è uscita dal ghetto della riprovazione sociale, diventando consumo di massa, abitudine tacitamente accettata dalla maggioranza perbene. A differenza dell'eroina non uccide in silenzio, ma schiamazza e rimbomba per la delizia dei residenti. A tarda notte i nuovi tossici in gessato nero scendono dalle Kawasaki e dalle Porsche parcheggiate in divieto, pisciano sulle cantonate e prima di dileguarsi barcollando decorano i davanzali del circondario con bicchieri e lattine di birra. Gli architetti di scuola texana che hanno inzeppato i bar del Sempione di poltrone leopardate, stucchi e finte specchiere barocche si sono evidentemente scordati latrine e pattumiere. Ma che diamine, non starete mica a guardare questi dettagli.

L'imperativo è uno solo: dar da bere agli assetati. Come se i milanesi fossero tutti reduci dalla traversata del Sahara. E allora bar, bar e ancora bar. Uno dietro l'altro. Chiudono a raffica gli ultimi negozi: panetterie, salumerie, mercerie, colorifici, e dove prima potevi comprare la baguette o un etto di prosciutto puoi solo ordinare un Martini. Per non parlare delle poche librerie indipendenti, strangolate dalla rapacità dei padroni di casa finché sloggiano e lasciano il posto all'ennesima boutique di moda. Sotto il vestito, niente. Gli abiti, in centro, te li buttano addosso a ogni angolo di strada, ma se cerchi un libro ti guardano strano come se chiedessi un tappeto volante.

E chinatown? Vent'anni fa era un dedalo di stradine secondarie, ma in via Canonica i bottegai parlavano ancora il dialetto del quartiere. Adesso i vari Hu e Chang si sono comprati in contanti caseggiati interi, hanno colonizzato un pezzo di città, trasformandolo in una piccola Shanghai. In via Paolo Sarpi, dove un tempo andavi a comprarti un Borsalino o una cravatta, ora trovi solo finte borse di Prada e tanga rosa shocking con la farfalla sul pube: tutto rigorosamente made in China. Perfino le gastronomie che una volta ti tentavano col vitel tonné e l'insalata russa ora propongono anatre laccate alla cantonese. Del resto, altrove, sono i venditori di kebab e di cous-cous ad avere sfrattato le pizzerie. O le macellerie islamiche, gremite di casalinghe in chador, dove è consigliabile non informarsi sui precedenti della bistecca.

  CONTINUA ...»

19 marzo 2010
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